Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini, recensione di Annalisa Scialpi
Ragazzi di vita è un romanzo di una sconcertante attualità. Giunto a Roma nel 1950, Pasolini studierà per cinque anni le abitudini dei ragazzi di vita. Ed eccola lì la Roma invisibile. La Roma delle borgate, delle casupole degli sfrattati, dei cafoni pugliesi e sardagnoli, dei tanti che Roma vomita, ma pure accoglie. Tanti come i ‘ragazzi di vita’ di Pasolini. E non si tratta solo di un romanzo antiborghese. Si tratta di un’opera, infatti, in cui spira un vento diverso. Quel vento che si esprime nel linguaggio crudo, neorealista, di una prosa antiretorica in cui il dolore è quello che è: dolore. Dolore di una vita vissuta ai margini, eppure impetuosa, scalpitante, indomabile. Incorreggibile. E qui la passione si fa nervo della narrazione: inscindibile da Pasolini essa scava, denuda manierismi di un’epoca che ha prodotto solo devastazione. E che continuerà a generarla fino a quando l’ideologia capitalistica dominerà la scena.
I ragazzi di vita oziano, rubano, si divertono, chiavano, talvolta muoiono, finiscono in carcere. Ma rimangono quasi emblemi di una bellezza che è resistenza, capacità di attraversare il nervo del vivere. In bilico. Sospesi su un mondo che li rigurgita è che, pure, vivono fino in fondo. Coi loro codici. Il loro veleno. E soprattutto la loro innocenza.
Il ricorso al romanesco si fa vitale. Perchè è questo, anche, che la borghesia ha fatto, degradando il dialetto: annullare quel mondo, relegarlo per sempre in una zona dimenticatoio della coscienza, dalla quale però è impossibile fuggire.
I ragazzi di vita si muovono furtivi nelle borgate, ma disturbano il sonno della Roma centro, che non riesce a contenerli. Che si trova, suo malgrado, come il suo fiume, a raccogliere quei microrganismi di vita infettante, di cui resta presa. Forse è per questo che Roma è il romanesco. Perchè Roma sono i racconti di chi l’ha fatta in sordina: cruda, sfacciata, violenta. Spregiudicata e libera.
Viaggia, il lettore, coi ragazzi di vita, tuffandosi nel fiume olioso e schiumoso di sversamenti industriali, indugiando tra le baracche alla ricerca di un pezzo di formaggio da rubare, rubando in capannoni siderurgici, stringendo alleanze, muovendosi nei tram senza biglietto, affacciati a notti che sembrano scenari apocalittici, con la luna che se ne sta impalata su un cielo fiammeggiante o tra nuvoloni che sgranano, rivelando il niente, tra immondizia e caseggiati, rivolte familiari e improbabili incontri.
Sembra mancare la trama, in questo romanzo, perchè così è il vivere a rompicollo su giorni senza domani: un’avventura senza trama, dove però rimane, nuda, la coscienza di esserci, con una domanda a fare da segnale unico:
“Mo che famo?”
Ci vuole tutta la passione del mondo per scrivere un romanzo così. Una passione che, a Pasolini, è costata tanto. Per non dire tutto. La passione dei solitari che sanno consegnare al mondo un barlume di bellezza, prima che affondi del tutto nelle maglie della grande macchina mutilante, chiamata civiltà.